Tornare a casa

Lago de Atitlán

Lago de Atitlán

Sono passati più di due anni dall’ultima volta in cui sono stata a casa mia. Non casa a Milano dove vivo da oltre 7 anni, ma parlo di casa-casa, dove c’è mamma e papà e tutto ciò che mi rappresenta; quel pezzetto di terra che noi locali chiamiamo el país de la eterna primavera, che anziché essere punto di riferimento è un punto di domanda sulla cartina, in quanto conosciuto solo allo straniero un po’ hippie e tanto avventuroso: Guatemala, il mio Paese natale.

Se faccio bene i conti, in realtà sono 2 anni, 2 mesi e 5 giorni da quando dai controlli in aeroporto e con il cuore spezzato ho lanciato l’ultimo bacio a mio padre, che da lontano mi faceva ciao con la mano, cercando di nascondere i suoi piccoli occhi pieni di lacrime. Salutare è sempre stato un atto drammatico a casa mia. Un conto è salire dalla Puglia o dalla Sicilia verso quel nord tanto ‘lontano’, un altro è attraversare l’oceano Atlantico e cambiare continente.

Tutto ebbe inizio l’agosto del 2005 in cui ho fatto i bagagli per la prima volta. Il mio luogo di destinazione era Northampton, nello stato del Massachusetts, nella East Coast degli Stati Uniti d’America. Il motivo del mio viaggio era che avevo vinto una borsa di studio e che avrei trascorso i prossimi 4 anni della mia vita allo Smith College, insieme ad altre 250 donne affamate come me. Sono stati gli anni più intensi e significativi fino ad oggi, ma mentre sceglievo cosa portare senza sfiorare gli sfidanti 64 chili (limite massimo per due bagagli da stiva) questo non lo potevo ancora sapere. L’unica cosa che sapevo bene era che andare via da quella dolce casa sarebbe stato durissimo.

Avevo ragione: in aeroporto ho pianto come una neonata. Solo in quel momento ho compreso cosa vuol dire ‘ciao, ci vediamo, non ti preoccupare di niente, ti vogliamo bene, ci sentiremo sempre, sarà come stare a casa tutti insieme, sei nel nostro cuore, coraggio, sii forte e metticela tutta, noi siamo con te, vedrai che il tempo vola e presto tornerai’. Ed invece non sono più tornata. Mi sono laureata con onori, rendendo fiera la mia famiglia e facendo valere la pena tutto il tempo che ho trascorso lontana da casa. Ma le mie ali dovevano ancora prendere volo e 4 mesi dopo aver lasciato lo Smith, ho scelto il Belpaese. Ecco, l’Europa sarebbe stata una nuova interessante avventura. Il continente che mi ha regalato la mia persona preferita, il mio compagno di vita, il mio adorato Giuseppe.

Quindi se faccio bene i conti fra qualche giorno saranno 11 anni che vivo all’estero. E che dire? Leggendo articoli di cosa vuol dire vivere oltre confine mi ci ritrovo su tanti aspetti. È vero: non parlo la mia lingua (ma ho imparato benissimo l’inglese e l’italiano), non faccio come facciamo in Guate perché ogni cultura è unica (ma ho imparato a fare le stesse cose in maniera diversa), non vedo i miei amici dell’infanzia (ma ho fatto amicizia con persone di tutti i continenti), non pranzo la domenica con i miei parenti (ma dormo fino a tardi e se voglio mangio in pigiama con mio marito), non chiamo la mamma quando mi pare per via delle 8 ore di differenza (ma quando parliamo ci divertiamo da morire e parliamo fino a quando una delle due deve pranzare o cenare), non mangio i piatti del Guatemala che tanto mi mancano come i tamales, tostadas o platanitos (ma la pasta alla norma, la pizza margherita, gli arancini o lo spezzatino sono spettacolari), e potrei andare avanti così fino a coprire tutte le mie esperienze in questa meravigliosa decade da straniera.

Tornare a casa è un privilegio. Se penso alle persone che sono all’estero per necessità (guerre, povertà, mancanza di opportunità) e che non hanno i mezzi o la possibilità politica o legale di tornare a casa loro mi vengono i brividi. Abbracciare mamma, papà e i miei fratelli è l’ossigeno di cui non potrò mai fare a meno, e tornare ogni volta che posso è una gioia infinita.

Ah Tierra del Quetzal, ti voglio bene e ovunque io vada tu verrai con me.

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